Articolo pubblicato sul numero monografico di Babele dedicato al Covid-19
Nell’epoca di Internet alcune notizie sono virali e si diffondono con futuristica¹ velocità. Immaginare la comunicazione nel nostro tempo con strumenti mediatici che non hanno sviluppato al proprio interno una salvaguardia «immunologica», incapaci quindi di produrre «anticorpi» che contrastino il diffondersi di non-verità, ci espone al contagio psichico rendendoci, nostro malgrado, «untori» e vittime. Tracciare una linea che sappia distinguere tra contatto e contagio diventa così una necessità per la coscienza. Mentre il contagio (sia biologico sia psichico) non prevede alterità, elude le differenze individuali e tende a uniformarci all’interno di recinti sintomatologici, il contatto tra le persone (quello salutare) traccia un confine metabolico (Virilio, 1997), che permette lo scambio e mantiene le differenze, consentendo all’alterità di venire integrata e reinterpretata dalla soggettività dei singoli.
L’isteria può contagiare un gruppo o una comunità ristretta; la paranoia (Zoja, 2011) può coinvolgere e sincronizzare una nazione intera (emblematico è il caso della Germania nazista con la sua regimentazione delle coscienze e il loro marciare uniforme al ritmo del passo dell’oca), ma, nell’epoca della globalizzazione noi ci troviamo, di fronte ad una pandemia, all’esposizione su scala planetaria verso il contagio dell’Uguale (Byung-Chul Han, 2017). Oggi, al tempo del Covid-19, il contagio psichico è quello della paura e dell’angoscia: paura di ammalarsi, di morire, angoscia di veder scomparire i propri cari. Nell’ultimo ventennio, la virtualità mediatica ci aveva desensibilizzati, attraverso un’abituazione al distanziamento emotivo. Abitavamo spazi virtuali e consuetudini relazionali che ci fornivano un’immunità illusoria rispetto ai pericoli del reale. Illuminante, a questo proposito, è il passo di Lucrezio nel De rerum natura: «Bello, quando sul mare si scontrano i venti / e la cupa vastità delle acque si turba, / guardare da terra il naufragio lontano: / non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, / ma la distanza da una simile sorte».
Tracciare una linea che sappia distinguere tra contatto e contagio diventa così una necessità per la coscienza
L’angoscia della prossimità del male e della morte e la sua elaborazione, da tempi immemori, è l’oscuro retaggio che grava su ogni epoca, rivelandone le dominanti culturali. La peste del Trecento, il vaiolo che distrusse le civiltà precolombiane e persino l’AIDS di fine Novecento diventano, rispettivamente, flagello di Dio nel Medioevo cristiano, fine del mondo per le civiltà sudamericane, punizione della promiscuità nell’America ostinatamente puritana del reaganismo². Il paradigma culturale della modernità guardava al futuro come luogo edenico in cui la scienza avrebbe sconfitto la morte e la malattia, attenuando il dolore fino all’estinzione. Jung contrasta questa visione allucinatoria e in un passo della sua autobiografia scrive:
Ci precipitiamo sfrenatamente verso il nuovo, spinti da un crescente senso di insufficienza, di insoddisfazione, di irrequietezza. Non viviamo più di ciò che possediamo, ma di promesse, non viviamo più nella luce del presente, ma nell’oscurità del futuro, in cui attendiamo la vera aurora. Ci rifiutiamo di riconoscere che il meglio si può ottenere solo al prezzo del peggio (1961, pp. 284-285).
Nella postmodernità il palesarsi del «peggio» ha sostituito il paradigma salvifico con una visione minacciosa del futuro: minaccia di esclusione, di perdita del lavoro, degli affetti, dell’identità, minaccia del terrorismo e quant’altro. A queste, oggi si è aggiunta una minaccia imprevista: quella del coronavirus. La diffusione del virus, come le note di esordio della quinta sinfonia di Beethoven, bussa oggi prepotentemente alla porta del destino, con lei la morte reclama il suo imperio regale.
Fiorisce un albero, e la morte fiorisce in esso altrettanto come la vita, e il campo, si vede dalla sua faccia distesa, è a un tempo raggiante di vita e di morte, e dall’una all’altra pazientemente gli animali trapassano – la morte è dappertutto a suo agio intorno a noi, e ci guarda con i suoi occhi dalle fessure delle cose (Rilke, 1955, p. 35).
La morte non ha mai smesso di segnare il confine che ci consegna alla nostra umanità, giacché essa è scaturigine e archetipo di ogni limite. La visione delle tante bare che l’estrema nemica³ ordinatamente allinea a causa della pandemia, tracciano per una società e una cultura che l’aveva esorcizzata, una (triste) soglia iniziatica. Come ogni iniziazione essa sarà foriera di inevitabili trasformazioni, ma di quale vastità e intensità, in quali forme, ancora non ci è dato sapere.
Note